L’arte
della guerra
Siluro bipartisan contro l’accordo
per l’Afghanistan
Centinaia di migliaia di vittime civili, oltre 2.400 soldati Usa
uccisi (più un numero imprecisato di feriti), circa 1.000 miliardi di dollari
spesi: questo in sintesi il bilancio dei 19 anni di guerra Usa in Afghanistan,
cui si aggiunge il costo per gli alleati Nato (Italia compresa) e altri che
hanno affiancato gli Usa nella guerra.
Bilancio fallimentare per gli Usa anche sotto il profilo politico-militare:
la maggior parte del territorio è oggi controllata dai Talebani o contesa tra
questi e le forze governative sostenute dalla Nato.
Su tale sfondo, dopo lunghe trattative, l’amministrazione
Trump ha concluso lo scorso febbraio un accordo con i Talebani, che prevede, in
cambio di una serie di garanzie, la riduzione del numero delle truppe Usa in
Afghanistan da 8.600 a 4.500. Ciò non significa la fine dell’intervento
militare Usa in Afghanistan, che continua con forze speciali, droni e
bombardieri. L’accordo, comunque, aprirebbe la via a una de-escalation del conflitto
armato.
Pochi mesi dopo la firma, però, esso è stato rotto: non dai
Talebani afghani ma dai Democratici statunitensi. Essi hanno fatto passare al
Congresso un emendamento all’Atto di autorizzazione che stanzia 740,5 miliardi
di dollari per il budget del Pentagono nell’anno fiscale 2021. L’emendamento, approvato
il 2 luglio dal Comitato dei servizi armati a grande maggioranza con i voti del
Democratici, stabilisce di «limitare l’uso di fondi per ridurre il numero di
forze armate dispiegate in Afghanistan».
Esso proibisce al Pentagono di spendere i fondi in suo
possesso per qualsiasi attività che riduca il numero dei soldati Usa in Afghanistan
al di sotto degli 8.000: l’accordo, che comporta la riduzione delle truppe Usa
in Afghanistan, viene così di fatto bloccato. Significativo è che l’emendamento
sia stato presentato non solo dal democratico Jason Crow ma anche dalla
repubblicana Liz Cheney, che fornisce il suo avallo in perfetto stile
bipartisan. Liz è figlia di Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti dal
2001 al 2009 nell’amministrazione di George W.Bush, quella che decise l’invasione
e occupazione dell’Afghanistan (ufficialmente per dare la caccia a Osama bin
Laden).
L’emendamento condanna esplicitamente l’accordo, sostenendo
che danneggia «gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati uniti», «non
rappresenta una realistica soluzione diplomatica» e «non fornisce protezione a
popolazioni vulnerabili». Per essere autorizzato a ridurre le proprie truppe in
Afghanistan, il Pentagono dovrà certificare che ciò «non comprometterà la missione
antiterrorismo degli Stati uniti».
Non a caso il New York Times ha pubblicato il 26 giugno un
articolo che, in base a informazioni fornite (senza alcuna prova) da agenti
dell’intelligence Usa, accusa «una unità dell’intelligence militare russa di aver
offerto a militanti talebani una taglia per uccidere soldati della Coalizione
in Afghanistan, prendendo di mira soprattutto quelli americani». La notizia è
stata diffusa dai principali media statunitensi, senza che nessun cacciatore di
fake news ne mettesse in dubbio la
veridicità.
Una settimana dopo al Congresso è passato l’emendamento che
impedisce la riduzione delle truppe Usa in Afghanistan. Ciò conferma quale sia il
reale scopo dell’intervento militare Usa/Nato in Afghanistan: il controllo di
quest’area di primaria importanza strategica. L’Afghanistan è al crocevia tra
Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale.
In quest’area (nel
Golfo e nel Caspio) si trovano grandi riserve petrolifere. Si trovano Russia e Cina, la cui forza sta crescendo e
influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono in un
rapporto del 30 settembre 2001, una settimana prima dell’invasione Usa dell’Afghanistan, «esiste la possibilità che emerga in Asia
un rivale con una formidabile base di risorse». Possibilità che ora si sta
materializzando.
Gli «interessi di sicurezza nazionale degli Stati uniti» impongono di restare in Afghanistan, costi quello che costi.
Gli «interessi di sicurezza nazionale degli Stati uniti» impongono di restare in Afghanistan, costi quello che costi.
Manlio Dinucci
il manifesto, 07 luglio 2020
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«DICHIARAZIONE DI FIRENZE»
Per la creazione di un fronte internazionale NATO EXIT in tutti i paesi europei della NATO.
Geografo e geopolitologo. Libri più recenti: Laboratorio di geografia, Zanichelli 2014 ; Diario di viaggio, Zanichelli 2017 ; L’arte della guerra / Annali della strategia Usa/Nato 1990-2016, Zambon 2016, Guerra Nucleare. Il Giorno Prima 2017; Diario di guerra Asterios Editores 2018, Premio internazionale per l'analisi geostrategica assegnato il 7 giugno 2019 dal Club dei giornalisti del Messico, A.C.
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