Nessuna lezione
dalla catastrofe afghana
Manlio Dinucci
Nel discorso del 16 agosto alla Casa Bianca, il presidente Biden ha fatto una lapidaria dichiarazione: «La nostra missione in Afghanistan non ha mai avuto come scopo la costruzione di una nazione, non ha mai avuto come scopo la creazione di una democrazia unificata e centralizzata». Una pietra tombale, messa dallo stesso presidente degli Stati uniti, sulla narrazione ufficiale che ha accompagnato per vent’anni la «missione in Afghanistan», in cui anche l’Italia ha speso vite umane e denaro pubblico per miliardi di euro. «Il nostro unico interesse nazionale vitale in Afghanistan rimane oggi quello che è sempre stato: prevenire un attacco terroristico alla patria americana», spiega Biden. Ma sulle sue parole getta ombra il Washington Post che, volendo svuotare il proprio armadio dagli scheletri delle fake news diffuse per vent’anni, titola: «I presidenti degli Stati Uniti e i leader militari hanno deliberatamente fuorviato il pubblico sulla più lunga guerra americana, condotta in Afghanistan per due decenni».
Il pubblico è stato «deliberatamente fuorviato» da quando, nell’ottobre 2001, gli Stati uniti, affiancati dalla Gran Bretagna, attaccavano e invadevano l’Afghanistan con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden, perseguito come mandante dell’attacco terroristico dell’11 settembre (la cui versione ufficiale faceva acqua da tutte le parti). Reale scopo della guerra era l’occupazione di questo territorio di primaria importanza geostrategica, confinante con le tre repubbliche centrasiatiche ex sovietiche (Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan), l’Iran, il Pakistan e la Cina (la regione autonoma Xinjiang Uygur). Vi erano già in questo periodo forti segnali di un riavvicinamento tra Cina e Russia: il 17 luglio 2001, i presidenti Jang Zemin e Vladimir Putin avevano firmato il «Trattato di buon vicinato e amichevole cooperazione», definito una «pietra miliare» nelle relazioni tra i due paesi. Washington considerava la nascente alleanza tra Cina e Russia una minaccia agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercavano di occupare, prima di altri, il vuoto che la disgregazione dell’Urss aveva lasciato in Asia Centrale. «Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse», avvertiva il Pentagono in un rapporto del 30 settembre 2001.
Quale fosse la reale posta in gioco lo dimostrava il fatto che, nell’agosto 2003, la Nato sotto comando Usa assumeva con un colpo di mano «il ruolo di leadership dell’Isaf», la «Forza internazionale di assistenza alla sicurezza» creata dalle Nazioni Unite nel dicembre 2001, senza che in quel momento avesse alcuna autorizzazione a farlo. Da quel momento oltre 50 paesi, membri e partner della Nato, partecipavano sotto comando Usa alla guerra in Afghanistan.
Il bilancio politico-militare di questa guerra, che ha versato fiumi di sangue e bruciato enormi risorse, è catastrofico: centinaia di migliaia di morti tra i civili, provocati dalle operazioni belliche, più un numero inquantificabile di «morti indirette» per povertà e malattie causate dalla guerra. Solo gli Stati uniti – documenta il New York Times – vi hanno speso oltre 2.500 miliardi di dollari. Per addestrare e armare 300 mila soldati governativi, sbandatisi in pochi giorni di fronte all’avanzata talebana, sono stati spesi dagli Usa circa 90 miliardi. Circa 55 miliardi per la «ricostruzione» sono stati in gran parte sprecati a causa della corruzione e inefficienza, Oltre 10 miliardi di dollari, investiti in operazioni anti-droga, hanno avuto come risultato che la superficie coltivata ad oppio è quadruplicata, tanto che l’Afghanistan fornisce oggi l’80% dell’oppio prodotto illegalmente nel mondo.
Emblematica è la storia di Ashraf Ghani, il presidente fuggito in un esilio dorato. Formatosi all’Università Americana a Beirut, faceva carriera alle università Columbia, Berkeley, Harvard e Johns Hopkins negli Usa, e alla Banca Mondiale a Washington. Nel 2004, in veste di ministro delle finanze, otteneva dai paesi «donatori», tra cui l’Italia, un «pacchetto di assistenza» di 27,5 miliardi di dollari. Nel 2014, in un paese in guerra sotto occupazione Usa/Nato, veniva nominato presidente ufficialmente col 55% dei voti. Nel 2015 il presidente Mattarella lo riceveva con tutti gli onori al Quirinale, insieme alla ministra della Difesa Pinotti che lo aveva incontrato un anno prima a Kabul.
Questa catastrofica esperienza si aggiunge a quelle che l’Italia ha già vissuto per aver partecipato, violando la propria Costituzione, alle guerre Nato dai Balcani al Medioriente e al Nordafrica. Nessuna lezione ne viene però tratta dalle forze politiche che siedono in parlamento. Mentre a Washington lo stesso Presidente demolisce il castello di menzogne sugli «alti scopi umanitari», con cui è stata motivata la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan, a Roma, come nel romanzo 1984 di Orwell, si cancella la storia.
Manlio Dinucci
(il manifesto, 20 agosto 2021)